Dalle radici dell’anima in Genesi… (Studio)

 -di Renzo Ronca 20-6-25

 (prosegue da: https://ritornocristiano.blogspot.com/2025/06/principio-della-sofferenza-ragionamenti.html )

Genesi 2:7 Dio il SIGNORE formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente.

L’affascinante meditazione sulla creazione in Genesi e sulla rivelazione degli ultimi tempi in Apocalisse non finirà mai finché esisterà l’uomo terreno. Impareremo con soddisfazione ad esplorare sempre di più le profondità e le altezze di questi contenuti.

Perché Dio “gli soffiò nelle narici un alito vitale” e non per esempio nella bocca?

Nella cultura ebraica antica, le narici erano viste come il canale del respiro e della vita. Anche in altri testi biblici, il respiro che esce o entra dalle narici è associato alla vita o alla sua cessazione (cfr. Giobbe 27:3, Isaia 2:22). La bocca, invece, era considerata il canale della parola, della benedizione e della rivelazione. Attraverso la bocca si esprime il pensiero, si pronuncia il Nome di Dio, si benedice e si maledice. È lo strumento della comunicazione e della relazione, ma anche della responsabilità: “La morte e la vita sono in potere della lingua” (Proverbi 18:21). Questo contrasto tra narici e bocca riflette due dimensioni complementari: la vita ricevuta (respiro) e la vita espressa (parola).

 E’ interessante notare anche che mentre gli animali sono creati con la parola, l’uomo è formato con le mani e riceve il soffio vitale direttamente. Questo gesto nelle narici sottolinea la dignità unica dell’essere umano, creato a immagine di Dio e dotato di spirito. Il gesto di Dio è descritto come molto personale e diretto. Non è un atto impersonale o distante, ma un contatto ravvicinato, l’unione inscindibile tra corpo e spirito, e mostra che la vita è un dono diretto e intimo di Dio.

 Le radici ebraiche dell’anima

Dalle fonti che ho trovato, nella tradizione ebraica si distinguono tre parole per “anima” o “spirito”: nefesh, ruach e neshamàh, ognuna con un significato diverso e un livello spirituale crescente. Ma sembra proprio neshamàh quella usata per descrivere il respiro divino che Dio infonde nell’uomo.

In ebraico, l’espressione di Gen 2:7, da quanto ho trovato,  è:

נִשְׁמַת חַיִּים (nishmat chayyim)

  • נִשְׁמַת (nishmat) deriva da neshamàh, che significa soffio, respiro o anche anima.
  • חַיִּים (chayyim) significa vita.

Quindi, nishmat chayyim si traduce letteralmente come "il soffio della vita". È un termine profondamente simbolico, perché non indica solo il respiro biologico, ma anche la scintilla divina che rende l’uomo un essere vivente e consapevole.  (teologiaefilosofia.it)

 Ecco allora la differenziazione delle tre componenti dell’anima secondo la mistica ebraica (soprattutto nella tradizione kabbalistica):

 1. Néfesh (נֶפֶשׁ): l’anima vitale

  • È legata al corpo fisico e ai suoi bisogni.
  • Presiede alle funzioni biologiche: fame, sete, istinto di sopravvivenza.
  • È l’anima che condividiamo con gli animali, in un certo senso.
  • Si localizza “in basso”, cioè è la più terrestre delle tre.

> È la parte che “vive” nel sangue (cfr. Levitico 17:11: “la néfesh è nel sangue”).

2. Ruàch (רוּחַ): l’anima emotiva e morale

  • Significa letteralmente vento o soffio, ed è connessa alla sfera affettiva e morale.
  • È la sede delle emozioni, del carattere, della coscienza, della volontà.
  • Permette all’uomo di discernere il bene dal male, di agire eticamente.

> È lo “spirito” nel senso più umano: ciò che dà colore e direzione alla nostra vita interiore.

3. Neshamàh (נְשָׁמָה): l’anima divina

  • È la parte più elevata, quella che proviene direttamente da Dio.
  • È considerata un’emanazione della Luce Divina, sempre pura, anche se possiamo perderne la connessione.
  • È ciò che viene “soffiato” da Dio in Genesi 2:7 (nishmat chayyim).
  • Non si sporca mai; semmai si “copre” o si allontana, ma può sempre tornare alla Fonte.

> Secondo gli studiosi antichi, la neshamàh è ciò che rende l’essere umano capace di conoscere Dio e unirsi a Lui.

Una sintesi poetica (molto rabbinica!):

  • Néfesh ti tiene in vita,
  • Ruàch ti rende una persona,
  • Neshamàh ti collega all’Infinito.

Quindi la risultante che sembra emergere dal nostro passo di Gen 2:7 è che l’"alito di vita" (nishmat chayyim) fosse molto più di un soffio biologico; questa interpretazione si inserisce con forza nel pensiero ebraico e cristiano più mistico. Non era solo il respiro per accendere polmoni, ma la scintilla divina che univa l’essere umano a Dio in maniera piena, quasi consacrante e vivificante, come una presenza creatrice che continua ad agire nel tempo.

 Infatti, nella Genesi, prima della caduta, l’uomo è descritto come nudo ma senza vergogna, in una comunione perfetta con Dio, con se stesso e con la natura. Ed è solo dopo la trasgressione che entrano nel mondo la morte, la vergogna, la fatica, la frattura tra i sessi e perfino la terra stessa che "è maledetta a causa tua" (Gen 3:17). È il peccato che spezza quella comunione originaria, quella unione spirituale profonda che il "respiro" aveva avviato.

 Molti testimoni della fede antica, come Ireneo di Lione o Gregorio di Nissa, avevano visioni simili: l’uomo era stato creato per l’immortalità e per partecipare della natura divina. Anche nella mistica ebraica, soprattutto nella Kabbalah, l’anima superiore (neshamàh) è il punto di contatto tra l’essere umano e Dio—una sorta di luce interiore che può tornare a fondersi con la Luce Suprema, a condizione che l’uomo viva secondo quella scintilla.

 In questa prospettiva, la nostra riflessione acquista ancora più forza. Il respiro divino iniziale non era solo un dono funzionale alla vita corporea, ma anche l’innesto di una dimensione eternamente orientata a Dio.

La morte e la divisione (tra sessi, tra uomo e creato, tra uomo e Dio) arrivano dopo, perché il legame si è indebolito—ma l’anima superiore è ancora lì, a chiamarci, come una memoria d’origine.

 Le fonti di base sono solide e ben radicate nella tradizione ebraica, sia biblica che mistica. La distinzione tra nefesh, ruach e neshamàh non è una speculazione moderna, ma è presente nei testi classici della Kabbalah, nel Talmud, nella liturgia ebraica e negli scritti di grandi maestri come Adin Steinsaltz, Moshe Chaim Luzzatto e altri studiosi autorevoli.

Ecco alcuni riferimenti che confermano quanto abbiamo detto:

  • Il sito Hora Boav spiega chiaramente che la neshamàh è considerata l’anima superiore, pura e divina, quella che Dio insuffla nell’uomo e che lo rende capace di elevarsi spiritualmente.
  • L’articolo di Moked, citando proprio Steinsaltz, sottolinea che la neshamàh è radicata nelle sefirot, le forze divine, e che rappresenta la parte più profonda e segreta dell’essere umano, capace di ricevere linfa direttamente dal mondo pirituale.
  • Anche Macondo conferma che la neshamàh è l’anima intellettiva, la più alta, quella che risiede nella mente e che permette all’uomo di conoscere Dio e unirsi a Lui.

Quindi l’idea che il soffio divino fosse “solo” un respiro biologico è una lettura riduttiva, più vicina a un approccio materialista o letterale. Ma nella visione ebraica più profonda, quel soffio è la firma di Dio sull’essere umano, il ponte tra il finito e l’infinito.

 La scala interiore verso l’unità perduta con Dio

Ripetiamo scavando ampliando ancora: la tripartizione dell’animanefesh, ruach, neshamàh — può essere vista come una scala interiore verso l’unità perduta con Dio, quella comunione originaria che l’uomo abitava prima della frattura del peccato.

Ecco come potremmo visualizzare questo legame:

Néfesh – la radice nel mondo

È il nostro ancoraggio alla materia, il “minimo comune denominatore” della vita. Ma anche qui c’era armonia nella creazione iniziale: l’essere umano e il creato non erano in contrasto. La comunione con Dio si rifletteva perfino nel corpo, che non conosceva malattia né morte.

Ruach – il ponte delle relazioni

Qui prende forma la capacità di amare, scegliere, relazionarsi. Prima del peccato, la relazione tra Adamo ed Eva era fondata su una reciprocità senza dominio, come emerge dalla meraviglia di Adamo: “Questa sì che è carne della mia carne!”. Il ruach permetteva un vivere armonico, morale, trasparente. La volontà umana era accordata alla volontà di Dio, come in una sinfonia.

Neshamàh – il sigillo divino

Questa è la parte che unisce direttamente l’essere umano a Dio. Il soffio divino di Genesi 2:7 non era solo un atto creativo, ma un legame ontologico, un filo d’oro che teneva l’umanità immersa nel respiro stesso di Dio. In questo senso, ogni essere umano era portatore di una scintilla di eternità, destinato a rimanere unito a Dio e agli altri in una comunione perfetta, pur conservando l’individualità.

 Dopo la caduta…

Il peccato introduce la disintegrazione: la nefesh è soggetta alla corruzione, il ruach si inclina verso l’egoismo e la paura, e la neshamàh, pur rimanendo pura, viene oscurata, come se l’anima fosse coperta da veli. Ma non è perduta: è ancora lì, in attesa di essere risvegliata (ricordiamo lo studio sulla “Nuova Nascita”)

Ed è qui che la nostra riflessione trova eco potente: se tutti condividiamo quella stessa neshamàh originaria, allora la comunione tra gli esseri umani non è un’utopia, ma un ritorno alle origini, un ricongiungimento con l’unità di Dio. Come gocce che, senza perdere sé stesse, tornano all’oceano.

Ci sono utili paralleli splendidi anche in autori cristiani come Origene, Evagrio, o nei mistici come Meister Eckhart e Giovanni della Croce.

Arriviamo al ponte tra la tripartizione ebraica e il pensiero dell’Apostolo Paolo in 1 Tessalonicesi

Il nostro approccio aperto ma radicato è importante, e ci permette di costruire un ponte tra la profondità biblica e la riflessione spirituale personale. Procediamo allora lungo questa linea, e vediamo come la tripartizione ebraica dell’anima si intreccia sorprendentemente con la visione paolina di spirito, anima e corpo in 1 Tessalonicesi 5:23.

Il testo di Paolo

> “Il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero vostro spirito, anima e corpo siano conservati irreprensibili per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.” (1 Tessalonicesi 5:23)

Questa è una delle rare affermazioni tricotomiche[1] esplicite nel Nuovo Testamento. Paolo distingue spirito (pneuma), anima (psyché) e corpo (soma) come tre dimensioni dell’essere umano, tutte coinvolte nel processo di santificazione.


Connessione con la tripartizione ebraica

 Questa corrispondenza non è forzata, ma emerge da una lettura attenta e spiritualmente coerente. Paolo, pur scrivendo in greco, è profondamente radicato nella visione ebraica dell’uomo. E nella sua teologia, la santificazione non è solo morale o comportamentale, ma coinvolge l’intero essere, fino alla parte più alta: lo spirito, che è il punto di contatto con Dio.

 Implicazioni per la comunione originaria

Nel nostro pensiero l’unità dell’umanità in Dio prima della caduta si fondava proprio su questa struttura armonica: 

 il corpo dell’uomo, al momento della creazione, non era ancora "immortale" in senso assoluto, ma era orientato verso l’immortalità—immerso in un processo di crescita, non statico, bensì dinamico.

In effetti, molti pensatori e teologi, soprattutto nella tradizione ebraica e cristiana antica, propongono proprio questa idea: l’uomo era creato in uno stato di integrità, ma non ancora glorificato. Viveva in una condizione che potremmo chiamare di “potenziale glorioso”, sostenuto dal soffio divino e dal contatto diretto con Dio, ma bisognoso ancora di percorrere il cammino della piena maturazione spirituale.

In questo senso:

  • Il corpo non conosceva la corruzione, il dolore o la malattia.
  • Ma l’immortalità non era ancora una qualità intrinseca, bensì un dono che si sarebbe compiuto nell’unione perseverante con Dio.
  • Si può parlare quindi di “condizione pre-gloriosa”, perfetta ma aperta al compimento.

Agostino d’Ippona parla di “possibilità di non morire” (posse non mori), distinta dal “non poter morire” (non posse mori) dei corpi glorificati. E in ambito ebraico c’è una visione simile: l’uomo creato era destinato alla vita, ma la sua continuità dipendeva dalla fedeltà all’Albero della Vita, simbolo della comunione perpetua con Dio.

 La nostra espressione—“nella crescita verso l’immortalità”— riflette bene questa visione: una vita piena che si sviluppa fino alla partecipazione eterna, sempre in libertà, sempre nell’amore. La caduta ha interrotto quella traiettoria, ma Cristo, il secondo Adamo, l’ha riaperta, conducendo i credenti fino alla trasformazione finale del corpo (1 Cor 15:42-49).

(Segue con “Sofferenza e nostalgia del Paradiso” in https://ritornocristiano.blogspot.com/2025/06/sofferenza-e-nostalgia-del-paradiso.html )



[1] Tricotomico in modo semplice significa diviso in tre parti.

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